Non domandarmi dove sono.

Sarei costretta a mentirti.

 

 

 

Perché sono qui?

Sono in cerca del passato. Come sempre.

 

 

Cerco qualche brandello di anima ancora aggrappato alla realtà che ha vissuto.

 

 

Soprattutto mi concentro sulle pietre, sulla loro capacità di custodire tracce percettibili a pochi eletti.

 

 

Scatto immagini a esseri non viventi che sembrano mettersi in posa, come una bimba con una bambola nuova.

 

Ah! Se c’è una data è meglio.

 

 

Una finestra, tra colori sfumati, può intercettare sguardi curiosi, senza rivelare quanto cela al suo interno.

 

 

 

Un tetto può dire molto, sempre solo a chi sa ascoltare.

 

 

 

Una porta socchiusa si lascia sorprendere, tra curiosità e paura.

 

 

 

Un albero vicino è come un amico fedele, a cui confidare ogni malinconia.

 

 

Ora comprendo che questo luogo è in attesa di una presenza.

 

Mi siedo anch’io ad aspettare.

 

 

 

 

 

 

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• un’archivista distratta in giro per mostre, musei e luoghi da scoprire;

• una ricercatrice di panorami e antichi dettagli;

• una lettrice appassionata;

• un’osservatrice fantasiosa;

• una fanatica dello “slow hiking”;

• una prigioniera dei sogni infranti;

• una pessima fotografa;

• un’indecisa tra memoria e finzione;

• un’ospitante di un bambino dell’est in vacanza terapeutica (in epoca pre-Covid);

• una malinconica quasi cronica;

• un’inquieta paziente oncologica;

• un’intercettatrice di emozioni.

 

 

In un cimitero che ho il destino di frequentare da tempo mi ha sempre intenerito una piccola tomba il cui monumento è un mezzobusto in marmo dalle fattezze infantili, ormai annerito da oltre un secolo di esistenza. Come epitaffio solo un nome, un cognome e gli anni di nascita e morte.

Dopo anni di “frequentazione” una sorta di “curiosità affettuosa” mi ha spinto a conoscere meglio il bimbo dal perenne sorriso.

Partendo dai dati in mio possesso, l’Archivio Parrocchiale della zona mi ha regalato qualche notizia: il piccolo è vissuto 3 anni, 6 mesi e 13 giorni e poi volavit ad Dominum (come dice il “Registro dei Morti”) per raggiungere la mamma morta poco dopo averlo dato alla luce.

Ho scoperto anche che prima di lui erano nati un maschietto e una femminuccia, vissuti rispettivamente 6 e 28 giorni.

I documenti d’archivio mi hanno anche rivelato qualcosa sul papà del bambino; gli “Stati delle Anime” lo indicano in America nel periodo successivo alla perdita del figlio e a un certo punto non viene più nominato.

 

Dopo tanto dolore probabilmente l’uomo non ha più fatto ritorno.

 

Intanto una piccola tomba, sfidando passare degli anni, continua a testimoniare un breve passaggio sulla terra. E io ho un piccolo amico distante nel tempo, per cui pregare ogni giorno.

 

 

 

         Osservando il monumento ai caduti nel quartiere genovese in Val Polcevera

 

E’ una donna in piedi, col capo coperto, che regge un giovane esanime; ricorda una Pietà e basta questo a renderla straziante.

La donna non guarda il ragazzo che ha tra le braccia, lo sguardo, carico di dignità, è puntato davanti a sé; forse guarda al futuro che vivrà senza il frutto del suo ventre.

Non vedo lacrime, ma l’istinto mi dice che ce ne sono state tante, come sappiamo noi che abbiamo perso un figlio. In qualunque modo.

Il giovane ha in una mano una piccola corona funebre che mi pare pronta a sfuggire da un momento all’altro, ma resta, nell’immobilità del bronzo.

Vorrei conoscere i pensieri della donna del monumento; forse ricorda la prima volta che ha avuto in braccio il suo bambino che ora, ventenne, dorme per l’eternità grazie a una granata, a una ferita in combattimento, a una malattia incontrata in trincea o a un motivo mai saputo.

La lastra alla base della statua mi dice che le madri d’Italia hanno offerto alla patria la vita dei figli e a Dio il loro spirito, affidando a noi, lettori del futuro, i “nomi sacri” dei caduti.

Allora me li leggo tutti questi nomi, pensando ad ogni mamma.

 

 

 

 

 

 

         Memoria di mortalità infantile

 

Un cimitero sul mare in un borgo di pescatori noto in tutto il mondo. Il dolore non cambia natura, neanche a Portofino.

Pasquale Ventura è ricordato da una piccola lastra di marmo in cui le date di nascita e morte (1937-1938) si intravedono tra la ghiaia bianca.

Il nome di Mario Schiaffino è in mezzo ad altri nella lapide di famiglia, l’anno 1926 ripetuto due volte ci dice che il piccolo non ha superato l’anno d’età.

Nicolino Sturlese è un bel bimbo di poco più di un anno dal ciuffo a cresta che fissa per sempre la macchina fotografica.

Ha superato i due anni Maurizio Salvatore Schiaffino, sorride appena tra il colletto di pizzo datato 1928.

Dario Gallotti è grandicello, nei suoi 13 anni; sulla sua tomba leggiamo “in memoria”. Allora ricordiamolo, pensandolo tra il luglio 1926 e l’ottobre 1939.

Essenziale la lapide di Sergio Giuffra, nato il 5 aprile del 1938 e morto nello stesso anno, il giorno di Natale, festività diventata certamente buia per tutta la vita della sua mamma.

Giovanni Costa è indicato insieme al nome del suo papà, anche lui Giovanni, e della sua mamma, Anna Gnecco; è precisato che è morto a Portofino nel 1887, a nove mesi.

Concludiamo il ricordo degli Angioletti di Portofino con Emanuele Vinelli. La nascita, il 25 giugno 1835, di questo piccolo è indicata con una frase dolorosa cioè aprì gli occhi al pianto, pensando forse alla valle di lacrime della Salve Regina. La morte è presentata con un’espressione frequente in questi casi: volò al Cielo l’11 aprile 1836.

 

 

 

Per saperne di più:

 

https://www.ivarchineltempo.it/index.php/ricerche/angioletti

 

 

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